domenica 20 marzo 2022

Concorso letterario: In mille parole - Tema: "L'ultima notte della mia vita" Terzo bimestre

 



Buona domenica terzo appuntamento con il concorso "In mille parole". Ogni mese vari autori ci delizieranno con racconti di tutti i generi.

Il concorso letterario è rivolto a tutti quelli che abbiano voglia di mettersi alla prova scrivendo un racconto in Mille Parole.

L'iniziativa è partita da Alex Astrid del blog "Vuoi conoscere un casino" che ha organizzato il tutto. Simo, Alex e la new entry Alessandro Ricci sono i giudici supremi a cui si aggiunge ogni bimestre una blogger diversa. Questo bimestre è toccato a me!

Il regolamento completo lo trovate QUI

Se volete leggere tutti i racconti unitevi a noi nel gruppo Facebook.



Il tema di questo mese è stato

Il mare oggi era così calmo che...”



I primi tre classificati sono:


  1. Alessandro Gnani

  2. Anna Maria Scampone e Alex Rigoni

  3. Giorgia Lucca






Ecco il racconto vincitore

L’infinito dentro di Alessandro Gnani


Il mare oggi era così calmo che pareva coperto d’olio. Dicevi sempre così quando tornavi dalla spiaggia. Il cavalletto a tracolla. Non avevi combinato nulla, ma sorridevi. La tela bianca sottobraccio parlava una lingua muta alle mie orecchie, mentre ascoltavo il tuo sorriso.

Qua da noi il mare è di poca acqua e troppa sabbia. Sabbia bianca. Così tanta che ci puoi camminare per infiniti metri senza bagnarti l’ombelico. Non l’ho mai fatto. Le ruote di Bianchina non sono tanto amiche della sabbia. Dicono che s’infoppano e ci muoiono dentro. Morire dentro la sabbia è peggio che morire dentro l’acqua, dicevi, dentro la sabbia muori chiuso come gli insetti, mica sei parte dell’infinito.

La storia dell’infinito non l’ho mai capita bene. Ma chi ero io per smentirti. Chi ero, da sempre costretta nel piccolo di Bianchina. Tornavi dalla spiaggia e mi spingevi sulla passarella. Le ruote di Bianchina scivolavano leggere sulle tavole di legno scuro. L’infinito ce l’avevo dietro di me ed ero felice. Tu volevi avercelo dentro. Ma chi ero io per rivelarti che t’illudevi. Lo so, meglio sognare tutta la vita che morire da insetti.

Io voglio una vita tutta azzurra, dicevi, l’infinito ha il colore dell’azzurro. Ti chinavi un po’, come a ricordarmi la mia seduta su Bianchina. Quanto odiavo il tuo abbassarti al mio livello. E puntavi il dito laggiù. L’infinito è l’assenza di orizzonte, dicevi, quando mare e cielo si incontrano in un tutt’uno d’azzurro.

Da principio hai tentato di fissare l’infinito da questa sabbia bianca. Montavi il cavalletto e vi poggiavi la tela. Il pennello, in mano per ore, non toccava mai. Tesoro mio, anche oggi non sono riuscito a cogliere l’infinito, dicevi, andiamo che s’è fatto tardi. Cento metri di passarella e già eravamo sulla veranda di casa. Avrei potuto vederti anche da qui, ma amavo starti più vicino possibile. Non te l’ho mai detto, ma l’ultima tavola della passarella è sempre stata la mia preferita, quasi una seconda casa, solo di me e di Bianchina.

Il tuo mare di poca acqua t’ha portato via. Tu neghi, dici che è stato l’infinito, che meglio sempre morire dentro l’acqua. Ancora oggi questa storia non la capisco bene, ma non importa, non preoccuparti, il mio limite non deve essere il tuo.

Così hai iniziato ad andare più e più avanti per la sabbia. A mala pena riuscivo a scorgerti, laggiù dentro il mare piatto come olio. Devo essere dentro l’infinito se voglio riuscire a rappresentarlo, dicevi. Per giorni lunghi di bonaccia rimanevi un puntino nero, troppo piccolo per sopravvivere al tuo falso infinito.

T’aspettavamo, io e Bianchina, e tu tornavi sempre. La tela sottobraccio la vedevo ancora bianca, ma non smettevi di sorridermi. Anche oggi non sono riuscito, tesoro, continuavo a vedere la riga divisoria dell’orizzonte. Quella riga ha diviso noi. Ma non ci badavo, non preoccuparti, il tuo sorriso era il mio infinito.

Il mare oggi è così calmo che pare volerti restituire da un momento all’altro. Come sempre lo guardo dall’ultima tavola della passarella.

Da anni rincaso con Bianchina e non ci sei più tu a portarci sulla veranda. Ma non importa, non preoccuparti, il tuo infinito lo porterò sempre dentro.


Questo invece è il mio preferito

Storia di Giacomo di Massimiliano Agarico


Il mare era così calmo che cominciai a vederci dentro fantastici disegni animati dalle mille sfumature. Sorpreso, per un attimo tenni le palpebre così esageratamente spalancate da sentirmi un pezzo di legno consumato che si lasciava trapassare da spifferi freddi e fastidiosi come sberle; proprio io che ero solito tenerle aperte non più di mezzo centimetro.

Saranno stupidi scherzi del cervello, — pensai — oppure è successo perché sono nella stessa posizione da troppo tempo.”

In effetti mi trovavo seduto in spiaggia da parecchie ore, piedi e culo nella sabbia umida, ingobbito con le ginocchia abbracciate al petto e il mento a sprofondare tra le clavicole. Mi sentii graffiare le orecchie da unʼanonima voce metallica, una di quelle sputate dai piccoli altoparlanti sgangherati nascosti tra le pareti di un treno: «Sono grandi chiazze di petrolio o benzina di navi alla deriva e aerei abbattuti, o qualche altra sostanza putrida che sta inquinando il mare».

Gli occhi mi uscirono dalle orbite un'altra volta mentre cercavo di guardarmi intorno tra l'oscurità e il rosso del tramonto, ma non trovai nessuno al di fuori degli scogli, un poʼ di sabbia e tantissima acqua immobile bloccata dentro un fotogramma.

Probabilmente, senza farsi scorgere, quello scenario strano aveva fatto compiere alla mia mente una giravolta in un altro mondo, o forse soltanto indietro nel tempo, perché il mare in effetti era sempre stato lì, nello stesso posto, a volte pozzanghera sudicia e altre lacrima cristallina, ma mai così calmo. Soprattutto mi accorsi di stare a osservarlo attraverso la finestra di casa, con la stessa meraviglia provata da bambino davanti a giocolieri, pagliacci e acrobati circensi, incorniciato dal piccolo sipario aperto formato dalle tende ricamate.

In un istante mi si inumidirono le guance anche per quel racconto quasi dimenticato sussurratomii ogni sera da mamma, con proverbiale calma, prima di spegnere la luce della cameretta; una storia speciale e fantastica che girovagava da tempo tra i vicoli di Corniglia, lʼantico e incantevole groviglio di case colorate nel quale sono nato. Il borgo di mezzo delle Cinque Terre, il più alto e piccolo. Lì, lungo via Fieschi, tra la chiesetta di Santa Caterina con il suo oratorio, il belvedere della terrazza di Santa Maria e il mercato in piazzetta Taragio, tra la fine del 1942 e l'inizio del 1943 nacque una storia così suggestiva che con il trascorrere del tempo acquistò i tratti di una favola della quale Giacomo era lʼinconsapevole e riluttante protagonista.

A quel tempo era solo un bambino vivace il giusto per i suoi 7 anni, che odiava i temporali notturni e per il quale Auschwitz era soltanto una parola impronunciabile. Aveva guance scavate di chi mangiava una volta al giorno, un principio di scoliosi e lo sguardo sempre malinconico. Non aveva grilli per la testa né sogni, forse soltanto quello di poter rivedere, un giorno, suo papà.

Dall'inverno del '39, dopo che la sua casa venne rasa al suolo, viveva appena fuori da quel borgo agonizzante, in un campeggio deserto divenuto per lui un micro paradiso al centro dell'inferno. Insieme a sua madre avevano occupato una delle poche baracche di campagna rimaste in piedi, di legno e ondulato in plastica: un locale di venti metri quadri con turca esterna. Di fianco alla casa resisteva una costruzione in eternit aperta di fronte, diventata rifugio notturno per gli animali.

Il cortiletto, ricoperto di fango o terra arida a seconda delle stagioni, era circondato da una rete arrugginita alta poco più di un metro, che faceva somigliare il posto a un piccolo campo profughi. Lì dentro scorazzavano Chico, un bastardino simile a un Chihuahua gigante; Junior, un maiale vietnamita di venticinque chili più largo che lungo; tre galline bianche e un galletto nero. Questo era tutto quel che aveva.

La fiaba narrava che ogni sera, al tramonto, Giacomo raggiungeva unʼinsenatura posta sotto il paese, nel versante in direzione Vernazza, per mezzo di una lunga scalinata che partiva dall'oratorio di Santa Caterina in Largo Taragio. Lì si sedeva a respirare l'aria ricca di iodio, stringeva al petto le ginocchia sbucciate e guardava il mare, confidandogli sogni e desideri. Quello più ricorrente era riuscire ad avvistare papà che, camminando sulle acque, ritornava sorridente da lui.

Certo, più di una volta il mare gli aveva mostrato rabbia oppure quella tranquilla risacca di chi si era divertito tutto il giorno per poi ritrovarsi stanco, e le sfumature dei suoi colori erano ogni volta diverse e sempre stupefacenti; ma quella sera, la sera della fiaba, il mare era così calmo da sembrare una lastra di ghiaccio sulla quale si rifletteva lʼimmagine nitida di ogni cosa al contrario, e sopra la quale poterci camminare fino a raggiungere suo papà. Ascoltò il fiato del vento provenire dal largo come un soffio freddo e vide avvicinarsi enormi nuvole nere: si illuminavano al loro interno con piccole esplosioni simili a bellissimi fuochi dʼartificio e si tramutavano di continuo in strane creature fantastiche per poi dissolversi. I suoi piedi vennero bagnati da improvvise onde schiumose: quella lastra aveva iniziato ad agitarsi in migliaia di piccoli tumulti lampeggianti, lasciando aperto un varco che arrivava dritto allʼorizzonte. Ricordò di quel Mosè più volte raccontato in chiesa e prese a camminarci dentro con la convinzione che Dio avesse finalmente ascoltato i suoi silenziosi desideri finché, a un certo punto del percorso, tra pesci volanti coloratissimi e alghe simili a enormi piante agitate dal vento, vide papà Adelmo sorridergli con le braccia aperte per accoglierlo.

Sì, la voce ascoltata quel giorno di tanti anni fa era certamente di Giacomo, e quando oggi mi siedo su questa spiaggia a scrutare l'orizzonte e ammirare il mare, vicino al posto in cui sono stati ritrovati i suoi vestitini ben ripiegati, a chi desidera ascoltare la sua storia la racconto, e chi ascolta piange. Qualche volta piango anch'io, quando aggiungo un dettaglio mai detto prima. Perché in fondo non ho voglia di ricordare davvero tutto.




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