Buongiorno
secondo appuntamento con il concorso "In mille parole".
Ogni mese vari autori ci delizieranno con racconti di tutti i generi.
Il
concorso letterario è rivolto a tutti quelli che abbiano voglia di
mettersi alla prova scrivendo un racconto in Mille Parole.
L'iniziativa
è partita da Alex Astrid del blog "Vuoi conoscere un casino"
che ha organizzato il tutto. Simo, Alex e la new entry Alessandro
Ricci sono i giudici supremi a cui si aggiunge ogni bimestre una
blogger diversa. Il regolamento completo lo trovate QUI
Se
volete leggere tutti i racconti unitevi a noi nel gruppo Facebook.
Il
tema di questo mese è stato
“L'ultima
notte della mia vita”
I
primi tre classificati sono:
Adelaide
J. Pellitteri
Alessandro
Gnani
Massimiliano
Agarico
Ecco
il racconto vincitore
Vincenzo
Di Fazio… di Adelaide J. Pellitteri
Arrivo
con armi e bagagli, qui non mi mancherà nulla, così come niente
mancò mai a mio nonno.
Da
quassù, il paese sembra sia a un tiro di schioppo, ma è alla giusta
distanza. Finirà che mi chiameranno l’eremita. Mio nonno lo
chiamavano così.
Lui
qui c’è nato e c’è anche morto.
Non
volle mai scendere in paese e nemmeno in città, neppure per venire a
vedere come era rinata Palermo distrutta dai bombardamenti.
“In
questo fortino - mi raccontava mio padre – il nonno ha accolto e
sfamato partigiani e sfollati durante la guerra”. Poi concludeva
“In paese dovrebbero fargli una statua d’oro”; mentre mia madre
lo prendeva in giro dicendo “non si allontanava mai da lì per non
lasciare incustodito il tesoro”, e io giù a ridere con lei.
Alludeva alla Cascina che non era certo una baita, e che nonno non
dotò mai di alcun confort.
Ero
stato io a battezzarla “il fortino” negli anni in cui lì ci
giocavo agli indiani. E fortino era rimasto il suo nome per sempre.
Sono
il nipote di un eroe e, quanto prima, mi sono ripromesso di andare a
parlare con il sindaco per provare a sondare il terreno circa la
possibilità di far dedicare a mio nonno almeno una strada. Magari il
corso principale che porta ancora il nome dei Principi Trupìa.
Blasonati di scarsa nobiltà.
Quale
motivazione migliore per dedicare quel corso a mio nonno se non
l’aiuto dato a tanti compaesani? Che senso ha mantenere il nome di
un casato che invece ha imposto per secoli la sua signoria
sfruttatrice?
Ho
mille progetti e domani arriverà l’architetto con la squadra per
far diventare questo tugurio il mio rifugio di montagna. Sono stanco
della città, dei suoi vizi, la sua anima è irrecuperabile, voglio
allontanarmene definitivamente. Adesso che, grazie a cinque anni di
scivolo, sono in pensione posso ritirarmi in questo pezzo di
paradiso. Almeno è questo che conto di farlo diventare.
Ringrazio
mio padre che ha tenuto in piedi questa baracca con un minimo di
decenza, così, accomodati i bagagli comincio la mia perlustrazione.
La
possibilità di poter finire i miei giorni dove ha vissuto mio nonno
mi inorgoglisce.
Ho
intenzione di contattare anche qualche giornalista cui raccontare la
storia di questo eroe senza medaglia.
Tra
un passo e l’altro avverto dei vuoti sotto il pavimento, cerco di
prestarvi attenzione, do qualche colpetto al legno, ascolto il rumore
diverso che fanno le assi e ne ho la conferma. Comincio a tastare il
pavimento carponi, cerco di capire meglio, quando la pressione più
decisa in un punto rivela un’asse libera dall’inchiodatura. Provo
a tirarla via, ma si solleva un pannello intero di circa un metro per
un metro. Una scaletta porta a un piano interrato del quale non
sapevo nulla, del quale mio padre non mi ha mai parlato.
Immagino
sia il ricovero dove mio nonno nascondeva i fuggitivi, o dove teneva
i viveri per sfamarli.
Recupero
una torcia e scendo giù, non è profonda, diedi gradini appena.
Intravedo quattro bauli abbastanza grandi, ne sono sorpreso.
Che
sia il tesoro del quale ridevamo con mia madre?
Le
serrature sono arrugginite e devo tornare su a prendere qualche
attrezzo; in casa non mancano pinze e cacciaviti.
Devo
smanettare un po’ per riuscire ad aprire il primo, e questo mi dà
la conferma che nemmeno mio padre ci ha mai messo mani. Lui è stato
qui fino all’estate scorsa poi, di notte un infarto e se n’è
andato, da solo, ma di certo felice di potere riabbracciare suo
padre.
Risalgo
come inseguito da mille demoni, arraffo tutto ciò che avevo a mala
pena sistemato per la mia permanenza durante i lavori. Afferro le
chiavi della macchina, ingrano la marcia e scappo via, giù verso la
città.
Sudo,
tremo, provo conati di vomito e fatico a trattenere ciò che ho
mangiato stamane, ma anche ieri e l’altro ieri. Vorrei vomitare
l’anima, se fosse possibile. Mi fermo, accosto al guardrail, da qui
il paese sembra minuscolo, mentre il mio disgusto è smisurato.
Vi
avessi trovato cadaveri, dento quei bauli, sarei stato felice; avrei
immaginato degne sepolture per i poveri disgraziati morti nonostante
l’aiuto di mio nonno. Ma ciò che ho trovato è aberrante, e non ha
giustificazione.
Vorrei
strapparmi dal volto il sorriso che mi dicono essere identico al suo,
vorrei poter cancellare il cognome che ho, e l’idea che mio figlio
porti in giro per il mondo il suo stesso nome mi fa ribrezzo.
Li
ho aperti tutti e lì per lì sono rimasto abbagliato: candelieri
d’argento, anelli di smeraldi, zaffiri, rubini, gioielli d’ogni
tipo, vassoi d’argento, quadri, armi…, perfino un ostensorio,
forse appartenuto alla vecchia cattedrale tanto stupefacente la
cesellatura. I bauli sigillati hanno mantenuto il tesoro intatto. Mi
sembrava di essere davanti alla refurtiva che si vede nel film dei
pirati.
Il
valore: incalcolabile.
Ogni
singolo oggetto aveva un cartellino attaccato.
Ho
letto e rabbrividito.
Ho
creduto di non aver compreso. Ho riletto il primo cartellino, poi il
secondo, il terzo… Mi sono accasciato sul pavimento scioccato.
Mentre
lo stomaco cominciava già le sue contrazioni e nel petto cresceva
l’affanno ho voluto ancora leggere per essere certo, ho preso un
candeliere e sul cartellino ho letto: 2 ottobre 1943 notaio Li Manni
con la figlia, la piccola Marilena, candeliere d’argento a cinque
braccia in cambio di tre giorni di rifugio senza cene. In quello
attaccato a un anello, invece c’era scritto: 7 luglio 1943 Principi
Gualtiero e Mafalda Trupìa; anello con smeraldo in cambio di due
notti di rifugio e una sola cena, due uova e una fetta di pane nero.
In un altro ancora: 12 febbraio 1944 Padre Gesualdo, ostensorio della
Matrice in cambio di tre fette di pane nero.
Ho
percepito la dannazione afferrarmi la gola, se fossi rimasto ancora
un minuto sarei morto soffocato, o forse è accaduto davvero perché,
nonostante sia riuscito a fuggire, posso affermare senza alcun dubbio
che: Vincenzo Di Fazio, il fiero nipote dell’eroe, è morto
stanotte.
Questo
invece è il mio preferito
Bella
e tragica di Anna Maria Scampone
Bella
e tragica. Così fu l'ultima notte della mia vita. Dopo, nulla
sarebbe stato più uguale.
Se
torno a quel momento sento ancora il dolce e delicato profumo di
zagare e il cri cri dei grilli nel prato; il cielo, sopra di noi, una
cupola scura punteggiata da mille lucette.
«Quello
è il Piccolo Carro e quella al suo estremo è la Stella Polare. Vedi
quanto è luminosa?»
Hai
alzato una mano tremante, disegnando nell'aria la sua forma. Eri così
fragile, eterea quasi. Mi si è stretto il cuore. Ricordo di aver
annuito, ringraziando l'oscurità che celava il gelo che possedeva il
mio animo; una disperazione che mi devastava dal terribile momento in
cui avevamo aperto quel maledetto referto.
«Quanto
tempo?» hai chiesto al dottore con voce incerta, da bambina. Lui non
ha risposto subito. Ha continuato a fissare la cartella clinica che
aveva in mano, scuotendo la testa. Ho accennato una carezza, ma ti
sei scostata bruscamente, evitando il contatto.
«Le
resta poco più di un mese di vita» ha risposto lui infine,
l’imbarazzo nascosto dietro a un colpo di tosse. Le sue parole sono
rimaste sospese in un silenzio irreale per un lungo, terribile
istante, poi le nostre mani si sono cercate, come in cerca di
sostegno reciproco. Ho sentito le tue unghie conficcarsi nella mia
pelle e il respiro farsi corto; ti ho cercata con lo sguardo e ho
incontrato i tuoi occhi dilatati, il terrore stampato sul viso. Ti
sei raggomitolata sulla sedia, i capelli sul viso a nascondere
l'angoscia.
«Andiamo
via» hai detto, la voce affannata come dopo una corsa.
«Ma...»
«Portami
via di qua.»
Me
lo hai gridato con tutto il fiato che avevi in corpo, tremando e
singhiozzando.
Siamo
fuggiti, correndo a perdifiato lungo corridoi asettici e freddi.
Quello che mi resta di quella fuga è una sequela di volti stupiti,
e, tra questi, quello di una persona che ci ha fissato con aria di
rimprovero.
«Diamine,
siamo in un ospedale» ci ha gridato dietro. «Il rispetto, i giovani
d’oggi non sanno più cosa sia.»
Mi
sono fermato all’istante e se tu non mi avessi strattonato un
braccio sarei tornato indietro e lo avrei picchiato fino a
trasformare la sua faccia perbene in una poltiglia irriconoscibile.
Mi
hai fissata, il viso pallido come un cencio.
«Credimi,
non ne vale la pena.»
Ho
ricacciato indietro il groppo che mi serrava la gola e mi sono
sforzato di guardarti negli occhi.
«Cosa
facciamo ora?»
«Portami
alla casetta sul lago.»
I
giorni sono volati via in un battibaleno. Ogni mattina ti ho vista
più debole; è stato straziante vedere la malattia che devastava il
tuo corpo, non lasciandoti un attimo di tregua.
Allungati
su un plaid, avvolti dal blu intenso della notte, gli occhi incollati
alla volta celeste, hai continuato: «Sai che siamo fatti di polvere
di stelle?»
«Ah
sì?»
«Sì,
noi siamo fatti della materia di cui è fatto l’Universo, nel
nostro DNA si nascondono gli stessi atomi che costituiscono le
stelle.»
Hai
appoggiato la testa sulla mia spalla e hai sospirato, lo sguardo
sognante perso dietro a chissà quali pensieri.
«Mi
aiuterai a tornare lassù?» hai detto in un sussurro.
«Co-cosa?»
«Nulla.
Stringimi, amore mio.»
Ti
ho accolta tra le braccia, sperando di aver travisato le tue parole.
Ti ho sentita indifesa, un uccellino implume caduto dal nido. Mi hai
baciato, un bacio tenero, a fior di labbra. Poi abbiamo fatto l’amore
sotto la luna ed è stato magico, quasi irreale. Ancora oggi mi
chiedo se non l’ho sognato, se le carezze e i gemiti e le lacrime e
le risate non sono state che proiezioni della mia mente.
«Stasera
tutto è perfetto mi hai detto. La luna, le stelle, noi… è il
momento giusto.»
Ho
cominciato a scuotere la testa in un diniego disperato. Non avevo
voce, parole, pensieri. Solo quel no muto.
«L’attesa
è troppo difficile, mi corrode dentro. Non ce la faccio più. Voglio
tornare a brillare lassù, così che, quando alzerai gli occhi al
cielo, tu possa riconoscermi e sapere che sono io.»
Non
hai atteso la mia risposta. Sapevi che, se me ne avessi dato
l’opportunità, avrei protestato, cercando di farti cambiare idea.
Ti sei alzata, facendomi cenno di restare seduto.
«Adesso,
ti chiedo una sola cosa.»
Avrei
voluto tapparmi le orecchie, trascinandoti di nuovo sul plaid, ma non
ho potuto. Eri così seria, così determinata che non ho osato farlo.
L’ho rimpianto, sai. Avrei potuto fermarti, o forse solo tentare di
farlo. Me ne rammarico ancora.
«Ti
prego, non fermarmi, qualsiasi cosa accada.»
«Tesoro…»
«No,
non farlo. Lasciami libera. Dimmi che lo farai, per me… per noi.»
Ho
annuito tra le lacrime, devastato nell’animo, incapace di oppormi,
una volta di più.
Un
ultimo sguardo, un’ultima carezza e ti sei allontanata, senza una
parola. Ti ho seguita con gli occhi, artigliando l’erba con le
dita. Quando sei scomparsa dalla mia vista ho realizzato che non
potevo perderti, che il dolore dell’abbandono era più forte di
qualsiasi promessa fatta. Ho scalato la piccola duna dietro la quale
eri scomparsa, ma eri già con i piedi nell’acqua.
Ho
gridato il tuo nome, ma non ti sei voltata. Hai continuato ad
avanzare nell’acqua, sempre più lontana. Ho corso a perdifiato,
senza riuscire a raggiungerti. Con i piedi già nell’acqua, mi sono
fermato, vedendo che ti giravi. Speravo in un tuo ripensamento,
invece hai messo un dito sulla bocca, intimandomi il silenzio; poi lo
hai alzato verso il cielo e sei sparita nel lago.
Ce
l’ho con l’autrice di questo racconto: avrei voluto che fosse
clemente e decidesse di dare un lieto fine alla nostra storia, ma non
c’è stato verso. E’ sua profonda convinzione che ciascuno abbia
il diritto di disporre della propria vita e di morire con dignità,
liberandosi dalla sofferenza. Il dibattito sull’eutanasia è lungo,
tortuoso, pieno di pietre d’inciampo, per cui sarebbe opportuna una
riflessione e una risoluzione decisiva a riguardo.