Buona
domenica terzo appuntamento con il concorso "In mille parole".
Ogni mese vari autori ci delizieranno con racconti di tutti i generi.
Il
concorso letterario è rivolto a tutti quelli che abbiano voglia di
mettersi alla prova scrivendo un racconto in Mille Parole.
L'iniziativa
è partita da Alex Astrid del blog "Vuoi conoscere un casino"
che ha organizzato il tutto. Simo, Alex e la new entry Alessandro
Ricci sono i giudici supremi a cui si aggiunge ogni bimestre una
blogger diversa. Questo bimestre è toccato a me!
Il
regolamento completo lo trovate QUI
Se
volete leggere tutti i racconti unitevi a noi nel gruppo Facebook.
Il
tema di questo mese è stato
“Il
mare oggi era così calmo che...”
I
primi tre classificati sono:
Alessandro
Gnani
Anna
Maria Scampone e Alex Rigoni
Giorgia
Lucca
Ecco
il racconto vincitore
L’infinito
dentro di Alessandro Gnani
Il
mare oggi era così calmo che pareva coperto d’olio. Dicevi sempre
così quando tornavi dalla spiaggia. Il cavalletto a tracolla. Non
avevi combinato nulla, ma sorridevi. La tela bianca sottobraccio
parlava una lingua muta alle mie orecchie, mentre ascoltavo il tuo
sorriso.
Qua
da noi il mare è di poca acqua e troppa sabbia. Sabbia bianca. Così
tanta che ci puoi camminare per infiniti metri senza bagnarti
l’ombelico. Non l’ho mai fatto. Le ruote di Bianchina non sono
tanto amiche della sabbia. Dicono che s’infoppano e ci muoiono
dentro. Morire dentro la sabbia è peggio che morire dentro l’acqua,
dicevi, dentro la sabbia muori chiuso come gli insetti, mica sei
parte dell’infinito.
La
storia dell’infinito non l’ho mai capita bene. Ma chi ero io per
smentirti. Chi ero, da sempre costretta nel piccolo di Bianchina.
Tornavi dalla spiaggia e mi spingevi sulla passarella. Le ruote di
Bianchina scivolavano leggere sulle tavole di legno scuro. L’infinito
ce l’avevo dietro di me ed ero felice. Tu volevi avercelo dentro.
Ma chi ero io per rivelarti che t’illudevi. Lo so, meglio sognare
tutta la vita che morire da insetti.
Io
voglio una vita tutta azzurra, dicevi, l’infinito ha il colore
dell’azzurro. Ti chinavi un po’, come a ricordarmi la mia seduta
su Bianchina. Quanto odiavo il tuo abbassarti al mio livello. E
puntavi il dito laggiù. L’infinito è l’assenza di orizzonte,
dicevi, quando mare e cielo si incontrano in un tutt’uno d’azzurro.
Da
principio hai tentato di fissare l’infinito da questa sabbia
bianca. Montavi il cavalletto e vi poggiavi la tela. Il pennello, in
mano per ore, non toccava mai. Tesoro mio, anche oggi non sono
riuscito a cogliere l’infinito, dicevi, andiamo che s’è fatto
tardi. Cento metri di passarella e già eravamo sulla veranda di
casa. Avrei potuto vederti anche da qui, ma amavo starti più vicino
possibile. Non te l’ho mai detto, ma l’ultima tavola della
passarella è sempre stata la mia preferita, quasi una seconda casa,
solo di me e di Bianchina.
Il
tuo mare di poca acqua t’ha portato via. Tu neghi, dici che è
stato l’infinito, che meglio sempre morire dentro l’acqua. Ancora
oggi questa storia non la capisco bene, ma non importa, non
preoccuparti, il mio limite non deve essere il tuo.
Così
hai iniziato ad andare più e più avanti per la sabbia. A mala pena
riuscivo a scorgerti, laggiù dentro il mare piatto come olio. Devo
essere dentro l’infinito se voglio riuscire a rappresentarlo,
dicevi. Per giorni lunghi di bonaccia rimanevi un puntino nero,
troppo piccolo per sopravvivere al tuo falso infinito.
T’aspettavamo,
io e Bianchina, e tu tornavi sempre. La tela sottobraccio la vedevo
ancora bianca, ma non smettevi di sorridermi. Anche oggi non sono
riuscito, tesoro, continuavo a vedere la riga divisoria
dell’orizzonte. Quella riga ha diviso noi. Ma non ci badavo, non
preoccuparti, il tuo sorriso era il mio infinito.
Il
mare oggi è così calmo che pare volerti restituire da un momento
all’altro. Come sempre lo guardo dall’ultima tavola della
passarella.
Da
anni rincaso con Bianchina e non ci sei più tu a portarci sulla
veranda. Ma non importa, non preoccuparti, il tuo infinito lo porterò
sempre dentro.
Questo
invece è il mio preferito
Storia
di Giacomo di Massimiliano Agarico
Il
mare era così calmo che cominciai a vederci dentro fantastici
disegni animati dalle mille sfumature. Sorpreso, per un attimo tenni
le palpebre così esageratamente spalancate da sentirmi un pezzo di
legno consumato che si lasciava trapassare da spifferi freddi e
fastidiosi come sberle; proprio io che ero solito tenerle aperte non
più di mezzo centimetro.
“Saranno
stupidi scherzi del cervello, — pensai — oppure è successo
perché sono nella stessa posizione da troppo tempo.”
In
effetti mi trovavo seduto in spiaggia da parecchie ore, piedi e culo
nella sabbia umida, ingobbito con le ginocchia abbracciate al petto e
il mento a sprofondare tra le clavicole. Mi sentii graffiare le
orecchie da unʼanonima voce metallica, una di quelle sputate dai
piccoli altoparlanti sgangherati nascosti tra le pareti di un treno:
«Sono grandi chiazze di petrolio o benzina di navi alla deriva e
aerei abbattuti, o qualche altra sostanza putrida che sta inquinando
il mare».
Gli
occhi mi uscirono dalle orbite un'altra volta mentre cercavo di
guardarmi intorno tra l'oscurità e il rosso del tramonto, ma non
trovai nessuno al di fuori degli scogli, un poʼ di sabbia e
tantissima acqua immobile bloccata dentro un fotogramma.
Probabilmente,
senza farsi scorgere, quello scenario strano aveva fatto compiere
alla mia mente una giravolta in un altro mondo, o forse soltanto
indietro nel tempo, perché il mare in effetti era sempre stato lì,
nello stesso posto, a volte pozzanghera sudicia e altre lacrima
cristallina, ma mai così calmo. Soprattutto mi accorsi di stare a
osservarlo attraverso la finestra di casa, con la stessa meraviglia
provata da bambino davanti a giocolieri, pagliacci e acrobati
circensi, incorniciato dal piccolo sipario aperto formato dalle tende
ricamate.
In
un istante mi si inumidirono le guance anche per quel racconto quasi
dimenticato sussurratomii ogni sera da mamma, con proverbiale calma,
prima di spegnere la luce della cameretta; una storia speciale e
fantastica che girovagava da tempo tra i vicoli di Corniglia,
lʼantico e incantevole groviglio di case colorate nel quale sono
nato. Il borgo di mezzo delle Cinque Terre, il più alto e piccolo.
Lì, lungo via Fieschi, tra la chiesetta di Santa Caterina con il suo
oratorio, il belvedere della terrazza di Santa Maria e il mercato in
piazzetta Taragio, tra la fine del 1942 e l'inizio del 1943 nacque
una storia così suggestiva che con il trascorrere del tempo acquistò
i tratti di una favola della quale Giacomo era lʼinconsapevole e
riluttante protagonista.
A
quel tempo era solo un bambino vivace il giusto per i suoi 7 anni,
che odiava i temporali notturni e per il quale Auschwitz era soltanto
una parola impronunciabile. Aveva guance scavate di chi mangiava una
volta al giorno, un principio di scoliosi e lo sguardo sempre
malinconico. Non aveva grilli per la testa né sogni, forse soltanto
quello di poter rivedere, un giorno, suo papà.
Dall'inverno
del '39, dopo che la sua casa venne rasa al suolo, viveva appena
fuori da quel borgo agonizzante, in un campeggio deserto divenuto per
lui un micro paradiso al centro dell'inferno. Insieme a sua madre
avevano occupato una delle poche baracche di campagna rimaste in
piedi, di legno e ondulato in plastica: un locale di venti metri
quadri con turca esterna. Di fianco alla casa resisteva una
costruzione in eternit aperta di fronte, diventata rifugio notturno
per gli animali.
Il
cortiletto, ricoperto di fango o terra arida a seconda delle
stagioni, era circondato da una rete arrugginita alta poco più di un
metro, che faceva somigliare il posto a un piccolo campo profughi. Lì
dentro scorazzavano Chico, un bastardino simile a un Chihuahua
gigante; Junior, un maiale vietnamita di venticinque chili più largo
che lungo; tre galline bianche e un galletto nero. Questo era tutto
quel che aveva.
La
fiaba narrava che ogni sera, al tramonto, Giacomo raggiungeva
unʼinsenatura posta sotto il paese, nel versante in direzione
Vernazza, per mezzo di una lunga scalinata che partiva dall'oratorio
di Santa Caterina in Largo Taragio. Lì si sedeva a respirare l'aria
ricca di iodio, stringeva al petto le ginocchia sbucciate e guardava
il mare, confidandogli sogni e desideri. Quello più ricorrente era
riuscire ad avvistare papà che, camminando sulle acque, ritornava
sorridente da lui.
Certo,
più di una volta il mare gli aveva mostrato rabbia oppure quella
tranquilla risacca di chi si era divertito tutto il giorno per poi
ritrovarsi stanco, e le sfumature dei suoi colori erano ogni volta
diverse e sempre stupefacenti; ma quella sera, la sera della fiaba,
il mare era così calmo da sembrare una lastra di ghiaccio sulla
quale si rifletteva lʼimmagine nitida di ogni cosa al contrario, e
sopra la quale poterci camminare fino a raggiungere suo papà.
Ascoltò il fiato del vento provenire dal largo come un soffio freddo
e vide avvicinarsi enormi nuvole nere: si illuminavano al loro
interno con piccole esplosioni simili a bellissimi fuochi dʼartificio
e si tramutavano di continuo in strane creature fantastiche per poi
dissolversi. I suoi piedi vennero bagnati da improvvise onde
schiumose: quella lastra aveva iniziato ad agitarsi in migliaia di
piccoli tumulti lampeggianti, lasciando aperto un varco che arrivava
dritto allʼorizzonte. Ricordò di quel Mosè più volte raccontato
in chiesa e prese a camminarci dentro con la convinzione che Dio
avesse finalmente ascoltato i suoi silenziosi desideri finché, a un
certo punto del percorso, tra pesci volanti coloratissimi e alghe
simili a enormi piante agitate dal vento, vide papà Adelmo
sorridergli con le braccia aperte per accoglierlo.
Sì,
la voce ascoltata quel giorno di tanti anni fa era certamente di
Giacomo, e quando oggi mi siedo su questa spiaggia a scrutare
l'orizzonte e ammirare il mare, vicino al posto in cui sono stati
ritrovati i suoi vestitini ben ripiegati, a chi desidera ascoltare la
sua storia la racconto, e chi ascolta piange. Qualche volta piango
anch'io, quando aggiungo un dettaglio mai detto prima. Perché in
fondo non ho voglia di ricordare davvero tutto.