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mercoledì 22 agosto 2018

Chi ben comincia #24 La chimera di Praga di Laini Taylor



REGOLE:
- Prendete un libro qualsiasi contenuto nella vostra libreria
- Copiate le prime righe del libro (possono essere 10, 15, 20 righe)
- Scrivete titolo e autore per chi fosse interessato
- Aspettate i commenti

Buon giorno mentre sono in vacanza sul mio adorato Lago di Garda, voglio incuriosirvi con le prime pagine di un romanzo uscito ormai da qualche anno ma che sarà protagonista del prossimo GDL a cui parteciperò. C'è bisogno che vi dica chi mi ha consigliato questa nuova avventura?
La rubrica nasce da un'idea del blog Il profumo dei libri.



La chimera di Praga
di Laini Taylor




Tanto tempo fa

un angelo e un diavolo si innamorarono.
Non finì bene.

1

Impossibile spaventarla
Mentre camminava sui ciottoli ovattati dalla neve per andare a scuola, Karou non aveva alcuna sinistra premonizione su quella giornata. Sembrava solo un altro lunedì, innocuo a parte la sua sostanziale luneditudine, per non parlare della sua gennaietà. Era buio e faceva freddo; in pieno inverno il sole non sorgeva fino alle otto. Eppure era incantevole. La neve che cadeva e l’ora mattutina cospiravano a dipingere una Praga spettrale, come un’antica lastra fotografica, tutta argento e foschia.
Sulla grande strada lungo il fiume, i tram e gli autobus passavano rombando, ancorando la giornata al ventunesimo secolo, ma nelle stradine più silenziose la pace invernale sarebbe potuta provenire da un’altra epoca. Neve, pietra e luce spettrale, i passi di Karou e il pennacchio di vapore dalla sua tazza di caffè. E lei era sola, persa tra pensieri normali: scuola, commissioni. Di quando in quando un piccolo morso d’amarezza alla guancia se una fitta di struggimento s’intrometteva importuna, come sono solite fare quelle fitte, ma lei le accantonava, risoluta, pronta a farla finita con tutto questo.
In una mano teneva la tazza di caffè e con l’altra il cappotto ben chiuso. Da una spalla pendeva una cartella da disegnatore e i suoi capelli – sciolti, lunghi e blu pavone – trattenevano un merletto di fiocchi di neve.
Un giorno come un altro.
Finché.
Un ringhio, dei passi precipitosi e Karou venne afferrata da dietro, trascinata con violenza contro un robusto torace maschile mentre delle mani scostavano bruscamente la sua sciarpa e lei sentiva dei denti – denti – premerle sul collo.
Che mordicchiavano.
Il suo aggressore la stava mordicchiando.
Seccata, Karou tentò di scrollarselo di dosso senza versare il caffè ma, nonostante lo sforzo, ne rovesciò un po’ fuori dalla tazza, nella neve sporca.
«Accidenti a te, Kaz, piantala», scattò lei, girandosi per affrontare il suo ex fidanzato. La luce dei lampioni illuminava dolcemente il bel viso del ragazzo. Che bellezza stupida, pensò spintonandolo. Che faccia stupida.
«Come facevi a sapere che ero io?», chiese lui.
«Sei sempre tu. E non funziona mai».
Kazimir si guadagnava da vivere saltando fuori da dietro le cose e lo frustrava non riuscire mai a strapparle nemmeno il più lieve sussulto.
«È impossibile spaventarti», si lamentò, offrendole quel broncio che credeva irresistibile. E, fino a poco tempo prima, lei non avrebbe resistito. Si sarebbe messa in punta di piedi e avrebbe leccato il suo labbro inferiore corrucciato, lo avrebbe leccato languidamente e poi lo avrebbe preso tra i denti e stuzzicato prima di perdersi in un bacio che l’avrebbe fatta sciogliere tra le sue braccia come miele al sole.
Ormai quei giorni erano decisamente finiti.
«Forse sei proprio tu a non essere spaventoso», e tirò dritto, riprendendo il suo passo.
Kaz la raggiunse camminandole al fianco, con le mani nelle tasche. «Però, io sono spaventoso. Il ringhio? Il morso? Qualsiasi persona normale avrebbe avuto un infarto. Tranne te, che hai il ghiaccio al posto del sangue».
Visto che lei lo ignorava, aggiunse: «Io e Josef stiamo per cominciare un nuovo giro turistico. Giro turistico vampiresco della Città Vecchia. I turisti ne andranno pazzi».
Vero, pensò Karou. I turisti pagavano molto bene per le visite guidate con fantasmi annessi che organizzava Kaz: li riunivano come pecore e li conducevano per l’intrico dei vicoli della vecchia Praga, al buio, fermandosi nei luoghi in cui si diceva che fossero stati commessi degli omicidi, in modo che i “fantasmi” potessero balzare fuori dai portoni e farli strillare istericamente. Lei stessa aveva impersonato un fantasma in diverse occasioni, brandendo davanti a sé una testa insanguinata ed emettendo lamenti mentre le grida dei turisti, via via, si trasformavano in risate. Era stato divertente.
Kaz era stato divertente. Ora non più. «Buona fortuna, allora», disse con tono incolore, guardando dritto davanti a sé.
«Potresti esserci utile», disse Kaz.
«No».
«Potresti impersonare una vampira provocante e molto sexy…».
«No».
«Un’esca per gli uomini…».
«No».
«Potresti indossare il tuo mantello…».
Karou s’irrigidì.
Con dolcezza, Kaz la blandì: «Lo hai ancora, piccola, non è vero? La cosa più bella che abbia mai visto, tu con quella seta nera sulla tua pelle bianca…».
«Falla finita», sibilò lei, fermandosi al centro di piazza Mal-te-se. Mio Dio, pensò. Quanto era stata stupida a prendersi una cotta per quell’insignificante attorucolo di strada, a farsi bella per lui e a offrirgli ricordi come quello? Assolutamente stupida.
Desolatamente stupida.
Kaz sollevò una mano per spazzarle via un fiocco di neve dalle ciglia. Karou disse: «Toccami e ti ritroverai questo caffè in faccia».
Lui abbassò la mano. «Roo, Roo, la mia selvaggia Karou. Quando smetterai di opporti? Ti ho detto che mi dispiace».
«Continua a dispiacerti, allora. Ma fallo da un’altra parte».
Parlavano in ceco e l’accento di Karou, pur acquisito, era indistinguibile da quello del ragazzo, che lì ci era cresciuto.
Kaz sospirò, irritato dal fatto che Karou continuasse a resistere alle sue scuse. Il suo copione non lo prevedeva. «Andiamo», insistette con fare insinuante. La sua voce era allo stesso tempo rude e dolce, una mistura di sabbia e seta, come quella di un cantante blues. «Siamo destinati a stare insieme, tu e io».
Destinati. Karou sperava sinceramente che, qualora fosse “destinata” a qualcuno, questo non fosse Kaz. Lo guardò, il bellissimo Kazimir il cui sorriso aveva sempre agito su di lei come un richiamo, obbligandola a correre al suo fianco. E quello le era sembrato uno splendido posto in cui stare, come se lì i colori fossero più intensi, le sensazioni più profonde. Ma era anche, come aveva scoperto, un posto popolare, visto che in sua assenza lo occupavano altre ragazze.
«Chiedi a Svetla di essere la tua vampira sexy», disse. «La parte della femmina provocante le viene naturale».
Kazimir si mostrò ferito. «Io non voglio Svetla. Voglio te».
«Ahimè. Io non sono un’alternativa».
«Non dire così», le rispose cercando la sua mano.
Lei si ritrasse, attraversata da una fitta di struggimento a dispetto della sua indifferenza forzata. Non la merita, si disse, nemmeno lontanamente. «Questo è stalking bello e buono, renditene conto».
«Dai! Non ti sto perseguitando. Sto casualmente facendo questa strada».
«Va bene», la chiuse lì Karou. Ormai si trovavano a pochi portoni di distanza dalla sua scuola. Il Liceo Artistico di Boemia era un istituto privato che aveva sede in un palazzo barocco di colore rosa in cui durante l’occupazione nazista, com’era noto, due giovani nazionalisti cechi avevano tagliato la gola di un comandante della Gestapo e avevano scritto la parola «libertà» con il suo sangue. Era stato un breve e coraggioso atto di rivolta prima che fossero catturati e impalati sui pinnacoli del cancello del cortile. Ora gli studenti si accalcavano di fronte a quello stesso cancello, fumando e aspettando gli amici. Ma Kaz non era uno studente, con i suoi vent’anni era parecchio più grande di Karou, e lei non lo aveva mai visto fuori dal letto prima di mezzogiorno. «Perché sei già sveglio?».
«Ho un nuovo lavoro», rispose. «Comincia presto».
«Cos’è, stai facendo visite guidate vampiresche di mattina?».
«Non quello. Un’altra cosa. Una specie di… svelamento». Sogghignava gongolando. Voleva che gli chiedesse quale fosse il suo nuovo lavoro.
Ma lei non ci sarebbe cascata. Con perfetto disinteresse disse: «Bene, divertiti», e se ne andò.
Kaz la chiamò: «Non vuoi sapere di che si tratta?». Il ghigno era ancora lì. Riusciva a sentirlo nella sua voce.
«Non m’interessa», rispose, e superò il cancello.

Voi avete letto questa serie? Vi è piaciuta?



martedì 10 luglio 2018

Chi ben comincia #23 Black Friars L'ordine della Spada di Virgina De Winter



REGOLE:
- Prendete un libro qualsiasi contenuto nella vostra libreria
- Copiate le prime righe del libro (possono essere 10, 15, 20 righe)
- Scrivete titolo e autore per chi fosse interessato
- Aspettate i commenti

Buon giorno anche oggi voglio riproporvi una rubrica che mi piace ma che ho un po' trascurato qui sul blog.
La rubrica nasce da un'idea del blog Il profumo dei libri.
Questa volta, per voi, l'incipit del primo romanzo di una saga che mi è stata suggerita (a colpi di frusta) dalla mia solita pusher librosa Chiara La lettrice sulle nuvole. Ora mia comandante puoi rilassare il braccio e posare la frusta!



Black Friars L'ordine della Spada
di Virginia De Winter



1. Evocatio




Scendeva la sera mentre i Frati dell'Ordine della Spada si disponevano per la parata annuale della Vigilia di Ognissanti.
I cavalli sbuffavano attendendo che i cavalieri li guidassero per le vie della città; i palafrenieri e i novizi avrebbero seguito il corteo a piedi.
I Frati Neri, com'erano comunemente chiamati gli appartenenti all'Ordine della Spada, indossavano la tradizionale divisa da lutto: il mantello, nero come l'uniforme militare, la spada sul fianco e al collo la Fides Armata, la croce a forma di spada rovesciata.
I novizi, che avevano la consegna del silenzio, si scambiavano gesti consultandosi sulla situazione del tempo senza emettere alcun suono: al pallido violetto che tingeva il cielo, ancora chiaro sulla linea dell'orizzonte, era solcato da nuvole che non sembravano promettere pioggia.
L'oscurità calava sulle facciate dei palazzi, le luci si accendevano dietro le finestre, le torce e le luminarie intorno ai portali e sui davanzali tenevano a bada il buio.
Un ufficiale dell'Ordine fece suonare tre volte una campanella e i colpi regolari echeggiarono le campane delle cattedrali che battevano i Vespri, perdendosi nel crepuscolo che stemperava il primo buio.
Era il segnale per gli ufficiali, che montarono in sella e si portarono in testa al corteo; quando il primo rintocco risuonò dal campanile dei Frati Neri, il comandante dell'Ordine spronò il cavallo.
La parata avrebbe percorso le vie principali della Vecchia Capitale fino alla mezzanotte, quando tutte le cattedrali cittadine avrebbero suonato i dodici rintocchi a morto, e a quel punto le milizie nere avrebbero assunto le loro posizioni intorno alla zona dove sorgeva il Presidio.
Le Confraternite di Penitenti, i Mendicanti, i Flagellanti e gli Spinati, in sai di sacco e sandali di corda, cominciavano a emergere dai loro covi per portare lungo le vie della città le loro insegne e i loro spettacoli di mortificazione, nel mormorio incessante di litanie nel dialetto del volgo.
Le severe processioni della sera di Ognissanti si incrociavano sovente con compagnie di studenti, con lunghi mantelli neri e feluca in testa, che salutavano la sera coi loro canti mentre si recavano nelle taverne o facevano prudentemente ritorno ai collegi. Non appena le comitive incrociavano gli sparuti cortei di sai, i goliardi si tiravano rispettosamente di lato per lasciare libera la strada: i più audaci li apostrofavano con cortese impertinenza ostentando segni di scongiuro e intonando versi contro il malaugurio, altri chinavano il capo e toglievano le feluche in segno di rispetto. Le matriculae giunte da poco in città spesso erano colte dal nervosismo e i compagni anziani si burlavano di loro.
La Corporazione dei Medici e gli esorcisti invece si preparavano alla mezzanotte, quando le nove cattedrali avrebbero segnalato con dodici rintocchi di campane a lutto il momento preciso in cui il Presidio avrebbe spalancato le sue porte, per l'unica notte dell'anno in cui era concesso, diffondendo per la città le sue nebbie e le sue creature.





Voi avete letto questa serie? Vi è piaciuta?



giovedì 25 gennaio 2018

Chi ben comincia #22




REGOLE:
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Buon giorno dopo qualche tempo voglio riproporvi una rubrica che ho un po' trascurato sul blog.
La rubrica nasce da un'idea del blog Il profumo dei libri.
Questa volta, per voi, l'incipit di un romanzo che sto leggendo in questo periodo e che trovo davvero divertente.



L'uomo giusto al numero sbagliato di Elle Kennedy




Capitolo Uno
Mia sorella è alla frutta, ma non è una novità. I suoi tre bambini la fanno sempre ammattire. Prendo il telefono per dare un’occhiata al suo ultimo messaggio.
Sorella: Mi serve una pausa. Porto le zecche al centro commerciale.
Rimango perplessa. Da quando in qua chiama i suoi figli “zecche”? Voglio dire, le stanno sempre appiccicati, però…
Io: Zecche?
Qualche secondo dopo arriva la sua risposta.
Sorella: Volevo dire checche. Maledetto correttore automatico.
Poi, due secondi dopo:
Sorella: Uffa! Non checche! Voglio uccidere il cazzo che ha cagato sulla mia merda perché sta diventando tutta gelatina.
A quel punto sto ridendo troppo forte per potermi fermare.
Sorella (di nuovo): Merda! Merdosissimo correttore automatico del cavolo! Sto portando i cocchi al centro commerciale e voglio uccidere il cane che ha cagato sulla mia erba perché sta diventando tutta giallina. Ti prego, fammi muggire.
Sorella (di nuovo): FAMMI MORIRE, NON FAMMI MUGGIRE. CHE HAI CHE NON VA, CORRETTORE??? PERCHÉ SEI COSÌ SCHIFOSO???
Riesco a malapena a premere i tasti per quanto sto ridendo.
Io: Chiama il loro padre e prendi un tranquillante. Verrò più tardi.
Sorella: Mi serve un telefono nuovo. Vado dal ricettatore a comprarne uno.
Io: Sarebbe una transazione interessante. Accetta carte di credito?
Sorella: RIVENDITORE, NON RICETTATORE. E voglio cavalcare il correttore automatico.
Io: LOL. Cavalcalo, sorella. Cavalcalo con foga.
Sorella: Taci. Voglio cancellare il correttore, non cavalcare. Maledetto corridore.
Deve aver rinunciato, perché è l’ultimo messaggio che ricevo da lei o dal suo corridore… ehm, correttore fuori controllo.



mercoledì 8 novembre 2017

Chi ben comincia #21

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Buona giornata lettori, finalmente è uscito in italiano l'ultimo capitolo della serie sui fratelli Maddox scritta da Jamie McGuire. La serie, per me, si è alternata tra alti e bassi ma volevo assolutamente leggere il romanzo conclusivo. L'appuntamento con la rubrica ideata dal blog Il profumo dei libri vi farà conoscere le prime frasi del libro. 


L'ultimo disastro di Jamie McGuire



1.

THOMAS
Mi sedetti sul freddo divanetto nella stanza d’ospedale di Liis. Le pareti dipinte di colori contrastanti, azzurro e marrone, e l’arredo minimalista ricordavano più un boutique hotel che un reparto maternità. La mia futura moglie era splendida, stesa comodamente nel letto in cui aveva partorito nostra figlia Stella, ora accoccolata contro il suo petto. Riposavo per la prima volta dopo diciassette ore. Rilassai le spalle e feci un lungo sospiro. Dormire poco o niente non era mai stato un problema per me, ma vedere la donna che amavo più di qualsiasi altra cosa al mondo soffrire tanto, e a lungo, mi aveva distrutto.
Liis era sfinita. Benché fosse più bella che mai, vedevo i suoi occhi cerchiati di viola, e non sapevo se offrirmi di tenere la bambina o aspettare che fosse lei a chiedermelo.
Osservarle serenamente abbracciate era confortante ma anche sconvolgente. Stella era la nuova vita che avevamo creato, la combinazione perfetta di due persone un tempo estranee. Avrebbe avuto pensieri e sentimenti suoi e, dato che era nostra figlia, ferme convinzioni.






giovedì 12 ottobre 2017

Chi ben comincia #20

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Buon giorno lettori, dopo un po' di tempo ritorna l'apputamento con una rubrica (ideata dal blog Il profumo dei libri) in cui vi lascio l'incipit del prossimo libro che leggerò. L'autrice mi è piaciuta molto con la sua precedente serie … e sono voglio davvero conoscere altri personaggi da lei creati.








Hero di Samantha Young



CAPITOLO 1

Boston, Massachusetts
Non era possibile.
Non stava succedendo davvero.
Strinsi le mani a pugno per farle smettere di tremare e percorsi il corridoio fino a raggiungere la parte open space dell’attico. Aveva soffitti alti come quelli di una cattedrale e una parete completamente occupata da finestre che davano su un terrazzo enorme. Giù al porto l’acqua luccicava sotto i raggi del sole. Era un bel palazzo in uno scenario stupendo, ma io non potevo godermi la vista, impegnata com’ero a cercare lui.
Il cuore smise di battere quando lo vidi fuori in terrazzo.
Caine Carraway.
«Alexa!».
Mi voltai di scatto verso la zona cucina, dove il mio capo, Benito, era circondato da due laptop e altri strumenti per lo shooting fotografico. Quello doveva essere il momento in cui salutavo sorridendo e gli chiedevo di spiegarmi cosa dovessi fare.
E invece mi voltai di nuovo verso Caine.
Il succo d’arancia bevuto quella mattina mi gorgogliava in modo spiacevole nello stomaco.
«Alexa!».
Improvvisamente mi ritrovai Benito davanti, cupo in volto, che mi fissava.
«Ciao», dissi con una voce piatta. «Dove mi vuoi?».
Piegò la testa di lato, guardandomi in un modo quasi comico. Io alta un metro e ottanta, lui dieci centimetri di meno. Ma compensava decisamente bene quel che gli mancava in altezza con la personalità. «Per favore», fece elargendomi un sospiro lungo e sofferente, «dimmi che sei di nuovo la mia Alexa. La donna del disastro della festa della mamma non riesco a gestirla. Oggi devo fotografare Caine Carraway per “Mogul”, nella rubrica sui migliori quarantenni che si sono fatti da soli. Caine ci farà l’onore di essere in copertina». Lanciò un’occhiata al modello. «Una scelta scontata». Tornò a guardarmi con un sopracciglio alzato. «Quello di oggi è uno shooting importante. In caso non lo sapessi, Caine Carraway è uno degli scapoli più appetibili di Boston. È l’amministratore delegato della Carraway…».
«Financial Holdings», dissi piano. «Lo so».
«Bene. Saprai anche che è schifosamente ricco e incredibilmente influente. È anche un uomo molto impegnato e difficile da accontentare, perciò questo servizio va fatto bene e presto».
Spostai l’attenzione da Benito all’uomo che aveva fondato una banca di successo subito dopo essere uscito dal college. Partendo da lì aveva poi espanso la compagnia, costruendo un portafoglio di affari diversificati, passando dai servizi bancari per le imprese a mutui immobiliari, compagnie di assicurazione, fondi di investimento, compravendita titoli di borsa, gestioni patrimoniali e via dicendo. Adesso era l’amministratore delegato di un’azienda che aveva nel suo consiglio una schiera di imprenditori ricchi e potenti.
Secondo i giornali Caine era riuscito in tutto questo grazie a una determinazione di ferro, una cura meticolosa dell’organizzazione e una grande ambizione per il potere.
In quel momento stava parlando al telefono, mentre Marie, consulente per l’immagine, gli lisciava le pieghe dell’abito di sartoria. La stoffa blu confezionata su misura gli stava a pennello. Caine era alto, uno e novanta, forse anche di più, con le spalle larghe e in perfetta forma fisica. Aveva un profilo deciso, gli zigomi prominenti e il naso aquilino, e i capelli, da cui adesso scacciava continuamente la mano di Marie spazientito, erano folti e scuri come i miei. Anche se in quel momento aveva le labbra serrate, sapevo dalle fotografie che possedeva anche una bocca sensuale e imbronciata.
Era decisamente materiale da copertina.
E altrettanto decisamente uno a cui non dovevi pestare i piedi.
Mandai giù il groppo che mi si era formato in gola.
Che ironia che dovessi ritrovarmelo davanti, dopo tutte le brutture che la morte recente e improvvisa di mia madre aveva portato in superficie… essendo lui parte di quelle brutture.




lunedì 11 settembre 2017

Chi ben comincia #19




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Buon inizio settimana, dopo tante recensioni volevo incuriosirvi con l'incipit di un libro che presto inizierò. La rubrica è stata ideata dal blog Il profumo dei libri.



Dillo tu a mammà di Pierpaolo Mandetta


Ricordati perché lo fai

La folla della stazione mi rema contro come il primo giorno che arrivai a Milano.
Il fumo delle tante sigarette si confonde con il grigiore generale. Fuori le strade sono bagnate dalla pioggia e le persone salgono e scendono imbronciate dai treni. Fuggono dappertutto, dirette alla prossima coincidenza o a qualsiasi altro dovere le tenga in pugno. Danno la triste impressione che la vita non gli appartenga davvero ma stiano solo tentando di rincorrerla.
Sono in ritardo. Mi affretto verso il vagone da cui arrivano i fischi e mi picchio la valigia sulle ginocchia.
«Aspetti, ci sono io! Aspetti! Eccomi, eccomi qua. La metro ha avuto dei prob...»
«SI MUOVA, VELOCE! Non possiamo mica aspettare lei!»
Il controllore mi insulta in bergamasco, mi scuso e salto dentro poco prima che il portellone si chiuda. Io e la valigia ci sdraiamo a terra e riprendo fiato. Sono sudato e ho la vescica piena, mi verrà una cistite, lo sento. Che stress.
Gattono tra i posti cercando il mio e trovo Claudia nell’ultima fila. Sistemo la valigia e sprofondo sul sedile.
«Buongiorno, principessa dormigliona» mi dice.
«Non è colpa mia. Uno ha cercato di buttarsi sotto la metro e hanno bloccato tutto. Ho dovuto prendere il tram. Secondo me lo fanno per rovinare la giornata a chi ancora vuole vivere. Dico io, va bene, sei incasinato perso e vuoi farla finita, ma Virginia Woolf si è annegata in un fiume. Non è che prima si è messa a scavare fino a dirottarlo sul villaggio per affogare tutti.»
«Analisi affascinante. Hai una bella cera, a proposito. Sei stato prigioniero nella cantina di un pazzo e i militari ti hanno liberato stamattina?»
«Ho dormito poco. Vado a darmi una sistemata.»
Mi chiudo nel bagno angusto e mi cambio la maglietta umida. Sono lercio, mi avvolgo nella carta igienica e mi passo il deodorante. Cerco di sistemare i capelli arruffati guardandomi allo specchio. Sono troppo lunghi, mio padre avrà da ridire. E molti sono anche bianchi, il che darà fastidio a mia madre. Rievocherà i tempi in cui avevo otto anni ed erano nerissimi, dandomi la colpa di essere diventato adulto. Ho messo la crema idratante, ieri sera, ma ho ugualmente le occhiaie livide. Credo sia la dieta, mi sta sciupando il viso. Forse dovrei imitare Sia, la cantante, e farmi crescere la frangia sugli occhi. O magari potrei imparare l’uncinetto, intrecciare i peli della barba e crearmi una bella maschera.




mercoledì 9 agosto 2017

Chi ben comincia #18




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Buon mercoledì, per la rubrica ideata dal blog Il profumo dei libri, stamattina voglio incuriosirvi con l'incipit di un libro che prevedo di leggere al più presto.

Puzzle di cuori di Ledra





Atroce.
Era stata una giornata lunga, infinita… proprio atroce. Non sapeva che altro aggettivo trovare per definire il dolore sordo e pulsante che le divorava il cuore. Samantha si passò una mano sul viso, non aveva ancora versato una lacrima e non stava seguendo nessuno dei consigli che lei elargiva con convinzione alle sue pazienti. Non urlava, non piangeva, non rompeva vasi e non muoveva un muscolo. Non era neppure in grado di dire da quanto tempo fosse lì a fissare il suo bellissimo abito da sposa. Lungo, a sirena, con scollatura a cuore, tempestato di perline e brillantini. Aveva deciso il modello dopo essersi innamorata di uno simile guardando la trasmissione Cercasi abito da sposa. Il cellulare suonò. Un’altra volta. La suoneria di Pocahontas l’avvertì che era di nuovo Rossella. Non voleva risponderle, non voleva parlare con nessuno. Si mise a letto vestita, si tirò le coperte sopra la testa e cercò di dormire: erano le sedici e nulla andava bene.
Il campanello suonò incessantemente insieme al cellulare. Samantha si riscosse, strinse gli occhi e guardò la sveglia: le nove. Si sentiva pesta e dolorante, un mal di testa fortissimo le trapanava ininterrottamente nel cervello e la forza vitale l’aveva abbandonata. Mise i piedi per terra e si rese conto di essere ancora vestita, tutta stazzonata ma completamente vestita con addirittura le calze. Oltre al campanello e al telefono, si erano aggiunti dei colpi alla porta.
«Samantha, aprimi! Aprimi, cazzo! Aprimi! So che sei lì!» sentì urlare l’amica.
Sospirò, doveva immaginare che Rossella, da vero ariete, non avrebbe mollato mai il suo obiettivo che in quel momento era lei.
Con flemma, si diresse alla porta e, con uno scatto furioso, l’aprì con ferocia mentre Rossella sollevava il pugno per bussare. Un cazzotto micidiale la stese al tappeto e, guardando l’amica che la squadrava terrorizzata, con una mano sulla bocca e il cellulare nell’altra, cominciò a versare tutte le lacrime che, fino a quel momento, non si era permessa di far sgorgare.
«Porca miseria, perché non mi hai urlato che stavi per venire ad aprirmi?» si mise a inveire Rossella mentre cercava di alzarla. Samantha non desiderava muoversi, ora che le lacrime scendevano voleva solo singhiozzare per l’eternità. «Avanti, dai alzati, muoviti, che mi fai stare male. Dai, muoviti!». Rossella la prese da dietro e cominciò a tirarla su mentre lei voleva solo distendersi sul pavimento. Ma l’amica, come un cane che non mollava l’osso, riuscì a metterla sul divano e a trovare, nella sua borsa da Mary Poppins, un fazzoletto di Titti. «Avanti, soffiati il naso» la incitò un po’ brusca, poi si precipitò ad aprire il freezer e ne estrasse l’unica bistecca di pollo che Samantha aveva già destinato per la cena, l’avvolse in uno strofinaccio e gliela spiaccicò in faccia senza tante cerimonie.
«Ahi, mi fai male!» urlò lei.
«È anche poco, vista tutta l’ansia che mi hai fatto venire» le ribatté furiosa Rossella. «Che cazzo ti è successo? Stavo per chiamare Chi l’ha visto. Non dovevamo andare a prendere le bomboniere ieri? Sei sparita, non mi hai chiamata, non mi hai messaggiato per dirmi “ehi scema non aspettarmi due ore in piedi fuori da un negozio in cui non entrerai mai perché non hai neppure l’illusione di un uomo che ti sposi”. Allora, che scusa hai? Guarda che se non ne hai una valida, giuro che anche se siamo amiche da ventiquattro anni, io ti mollo!» continuò imperterrita. Fece per riprendere la tiritera ma si fermò. Evidentemente la sua faccia sconvolta, i vestiti sgualciti e le lacrime ininterrotte l’avevano gettata nel panico. «Cara, mi dici cosa è successo?» le chiese l’amica chiaramente allarmata.
«Gianpietro mi ha lasciata» le rispose Samantha guardandola negli occhi e ricominciando a piangere disperata.






mercoledì 26 luglio 2017

Chi ben comincia #17




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Buon mercoledi, stamattina vi lascio l'inizo di un libro che aspetta da molto di essere letto. In occasione della challenge La ruota delle Letture – Obiettivo Copertina ROSA, ho finalmente modo di iniziarlo.

La rubrica nasce da un'idea del blog Il profumo dei libri.

DOV'È FINITA AUDREY di Sophie Kinsella



Oddio, la mamma è impazzita.
Non mamma-pazza normale. Proprio pazza per davvero.
Mamma-pazza normale: la mamma dice “Proviamo tutti questa fantastica dieta senza glutine che ho trovato sul ‘Daily Mail’!” e compra tre filoni di pane senza glutine. È così disgustoso che ci viene da vomitare. La famiglia inizia a scioperare, la mamma seppellisce il suo sandwich in un’aiuola e la settimana dopo niente più dieta senza glutine.
Questa è la mamma-pazza normale. Ma stavolta è proprio pazza pazza.
È affacciata alla finestra della sua camera da letto, che dà su Rosewood Close, la strada in cui viviamo. No,affacciata sembra troppo normale. La mamma non è per niente normale. Si sporge tantissimo, tutta agitata, con uno sguardo folle. Ha in mano il computer di mio fratello Frank. Lo tiene in equilibrio precario sul davanzale. Da un momento all’altro potrebbe precipitare e andare in mille pezzi. È un computer che costa 700 sterline.
Se ne rende conto? 700 sterline. Non fa altro che ripeterci che noi ignoriamo il valore dei soldi. Dice sempre cose tipo “Avete un’idea di quanto ci vuole a guadagnare 10 sterline?” e “Stareste più attenti a spegnere la luce se foste voi a pagare la bolletta!”.
Be’, e guadagnare 700 sterline e poi buttarle apposta giù dalla finestra, allora?
Sotto di noi, sul prato, c’è Frank con la sua T-shirt di “Big Bang Theory” che si agita, si prende la testa fra le mani, farfuglia in preda al panico.
«Mamma.» La sua voce è stridula dal terrore. «Mamma, è il mio computer
«Lo so benissimo che è il tuo computer!» strilla isterica la mamma. «Cosa credi?»
«Mamma, per favore, possiamo parlarne?»
«Ho provato a parlarne!» urla lei. «Ho provato a prenderti con le buone, a discutere, a supplicarti, a ragionare, a darti dei soldi, le ho provate tutte, Frank, TUTTE!»
«Ma il computer mi serve!»
«Il computer non ti serve a niente!» urla la mamma, con così tanta furia che mi vengono i brividi.
«Mami sta per buttare il computer!» dice Felix, arrivando di corsa e guardando in su con entusiasmo incredulo. Felix è il nostro fratellino. Ha quattro anni. Accoglie la maggior parte dei fatti della vita con entusiasmo incredulo. Sta passando un camion! Ketchup! Una patatina lunghissima! La mamma che butta un computer dalla finestra è solo un altro dei miracoli quotidiani.
«Sì, e il computer si romperà» dice Frank rabbiosamente. «E tu non potrai mai più giocare a Star Wars, mai più!»
Felix, sgomento, fa una smorfia e la mamma riparte con una nuova scarica di rabbia.
«Frank!» strilla. «Non tormentare tuo fratello!»
I nostri dirimpettai, i signori McDuggans, escono di casa a guardare. Ollie, loro figlio, dodici anni, addirittura urla «Nooo!» quando vede quello che sta per fare la mamma.
«Signora Turner!» Attraversa la strada di corsa, raggiunge Frank e guarda verso l’alto con aria supplichevole.
Ogni tanto Ollie gioca a Land of Conquerors online con Frank, se Frank ha voglia di essere gentile e non ha nessun altro con cui giocare. Adesso Ollie sembra ancora più sconvolto di lui.
«Per favore non distrugga il computer, signora Turner» dice, tremante. «C’è il back-up di tutti i commenti al gioco di Frank. Sono così divertenti.» Si volta verso Frank. «Sono divertentissimi.»
«Grazie» borbotta Frank.
«Tua mamma sembra proprio…» Ollie sbatte le palpebre, nervoso. «Sembra una Divinità Guerriera di Settimo Livello.»
«Cosa sarei?» chiede la mamma.
«È un complimento» ribatte Frank, alzando gli occhi al cielo. «Se giocassi, lo sapresti. Ottavo livello» precisa a Ollie.
«Giusto.» Ollie si corregge in fretta. «Ottavo.»
«Non siete neanche in grado di parlare correttamente!» attacca la mamma. «La vita reale non è una serie di livelli!»
«Mamma, per favore» interviene Frank. «Faccio tutto quello che vuoi. Carico la lavastoviglie. Telefono alla nonna tutte le sere. Andrò a…» si guarda intorno, disperato. «Andrò a leggere per i sordi.»
Leggere per i sordi? Ma si rende conto di quello che dice?
«I sordi?» La mamma esplode. «I sordi? A me non interessa che tu vada a leggere per i sordi! Sei tu il maledetto sordo qui dentro! Non senti quando ti parlo, hai sempre quelle dannate cuffie in…»
«Anne!»
Alzo gli occhi e vedo il papà buttarsi nella mischia, e vedo anche un paio di vicini uscire sulla porta di casa. È diventato ufficialmente un Caso di Quartiere.
«Anne!» la chiama di nuovo il papà.
«Lasciami sistemare questa cosa, Chris» dice la mamma in tono di avvertimento, e vedo benissimo che il papà deglutisce. Mio padre è alto, bello, un po’ tipo quelli che fanno le pubblicità delle auto, e ha l’aria di quello che comanda, ma dentro non è davvero un maschio alfa.
No, sembra brutto detto così. Immagino che sotto molti aspetti sia alfa. Solo che la mamma è ancora più alfa. È forte e prepotente e carina e prepotente.
Ho detto prepotente due volte, vero?
Bene. Tirate voi le conclusioni.
«Lo so che sei arrabbiata, tesoro» cerca di blandirla il papà «ma non è una soluzione un po’ estrema?»
«Estrema? È lui che è estremo! È schiavo di questa roba, Chris!»
«Non sono schiavo!» strilla Frank.
«Sto solo dicendo…»
«Cosa?» Finalmente la mamma si gira a guardare il papà. «Cosa stai dicendo?»
«Se lo butti lì, finirà sull’auto.» Il papà rabbrividisce. «Non potresti spostarti un pochino a sinistra?»
«Non me ne importa niente della macchina! Lo faccio per il suo bene!» La mamma inclina ancora più pericolosamente il computer sul davanzale e tutti tratteniamo il fiato, compresi i vicini.
«Per il mio bene?» urla Frank rivolto alla mamma. «Se tu mi volessi bene non mi distruggeresti il computer!»
«E se tu volessi bene a me, Frank, non ti alzeresti di nascosto alle due di notte per giocare online con dei tizi in Corea!»
«Ti alzi alle due di notte?» chiede Ollie con gli occhi sbarrati.
«Allenamento.» Frank alza le spalle. «Mi allenavo» ripete alla mamma con una certa enfasi. «Tra poco c’è il torneo. Dici sempre che devo avere uno scopo nella vita! Be’, ce l’ho!»
«Giocare a Land of Conquerors non è uno scopo! Oddio, oddio…» Sbatte ripetutamente la testa contro il computer. «Dove ho sbagliato?»
«Oh, Audrey» dice all’improvviso Ollie, vedendomi. «Come va?»
Mi ritraggo spaventata dalla mia postazione alla finestra di camera mia. Non volevo farmi vedere, e meno che mai da Ollie, che di sicuro ha una cottarella per me, anche se ha due anni di meno e non mi arriva neanche al collo.
«Guardate, c’è la diva!» fa lo spiritoso Rob, il papà di Ollie. Sono quattro settimane che mi chiama “la diva”, anche se il papà e la mamma sono andati separatamente a chiedergli di piantarla. Lui pensa che sia divertente e che i miei genitori non abbiano senso dell’umorismo. (Ho notato spesso che per molta gente “avere senso dell’umorismo” equivale a “essere un imbecille insensibile”.)
Questa volta però credo che i miei non abbiano neanche sentito la fantastica battuta di Rob. La mamma sta ancora piagnucolando “Dove ho sbagliatoooo?” e il papà la scruta con una buona dose di ansia.
«Non hai sbagliato!» grida. «Niente, non hai sbagliato niente! Tesoro, vieni a bere qualcosa. Metti giù quel computer… per adesso» aggiunge in fretta, vedendo la faccia che fa la mamma. «Lo puoi buttare dalla finestra più tardi.»
La mamma non si muove di un millimetro. Il computer ondeggia sempre più pericolosamente e il papà freme. «Amore, è solo per la macchina… abbiamo appena finito di pagarla…» si sposta verso l’auto allargando le braccia, come per proteggerla da una grandinata di hardware.
«Prenda una coperta!» dice Ollie, entrando in azione. «Salvi il computer! Ci vuole una coperta. Faremo un cerchio…»
La mamma non lo sente neanche.
«Ti ho allattato!» strilla a Frank. «Ti ho letto Winnie the Pooh! Volevo soltanto un figlio come si deve a cui interessassero i libri e l’arte e la natura e i musei e magari uno sport agonistico…»
«LOC è uno sport agonistico!» grida Frank. «Tu non lo conosci proprio! È una cosa seria! Il premio del torneo internazionale di LOC a Toronto è di 6 milioni di dollari!»
«Sì, ce l’hai detto!» sbotta la mamma. «E allora di’ un po’, pensi di vincere? Di guadagnare una fortuna?»
«Forse.» Mio fratello le rivolge uno sguardo cupo. «Se riesco ad allenarmi abbastanza.»
«Frank, smettila di sognare!» La sua voce riecheggia in tutta la strada, acuta, quasi inquietante. «Tu non sarai ammesso al torneo di LOC, non vincerai quei dannati 6 milioni e non ti guadagnerai da vivere con i videogames! NON SUCCEDERÀ NIENTE DI TUTTO QUESTO!»