venerdì 28 ottobre 2016

Chi ben comincia... #1


Nuova rubrica che ho deciso di fare dopo averla vista sul blog di Alessia del blog Il profumo dei libri.
REGOLE:
- Prendete un libro qualsiasi contenuto nella vostra libreria
- Copiate le prime righe del libro (possono essere 10, 15, 20 righe)
- Scrivete titolo e autore per chi fosse interessato

  • Aspettate i commenti

Per la prima “puntata” di questa rubrica del blog voglio farvi conoscere il prologo del libro Fireman – L'uomo di fuoco di Joe Hill, figlio di Stephen King. Mi piace molto il suo stile, quasi quanto quello del più celeberrimo padre!



Prologo

Accensione

COME tutti, Harper Grayson aveva visto un sacco di gente andare a fuoco in tv, ma la prima volta che vide una persona bruciare dal vero fu nel cortile dietro la scuola.
A Boston e in altre parti del Massachusetts le scuole erano chiuse, ma nel New Hampshire venivano ancora tenute aperte. Lì c’erano stati alcuni casi, ma isolati. Harper aveva sentito che mezza dozzina di pazienti erano ricoverati in un’ala sicura dell’ospedale di Concord, affidati alle cure di una squadra di medici equipaggiati con tute protettive integrali e infermiere armate di estintore.
Harper stava tenendo premuto un impacco freddo sulla guancia di Raymond Bly, un bambino di prima elementare colpito alla faccia da una racchetta da badminton. Succedeva sempre una o due volte ogni primavera, quando l’insegnante di ginnastica, Keillor, tirava fuori le racchette. E, puntuale, tutte le volte diceva ai ragazzi di non farci caso, anche se li vedeva con i denti in mano. Le sarebbe piaciuto che un giorno o l’altro Keillor si prendesse una racchettata nelle palle, giusto per la soddisfazione di dire a lui di non farci caso.
Raymond non piangeva quando era arrivato, ma poi si era guardato allo specchio e per un attimo aveva perso la sua compostezza: gli era apparsa una fossetta sul mento e l’agitazione gli aveva fatto tremare i muscoli del viso. Aveva un occhio nero e viola, quasi completamente chiuso. Il riflesso allo specchio lo aveva spaventato più del dolore.
Per distrarlo, Harper fece ricorso alle merendine di emergenza. Le conservava in un vecchio portapranzo di Mary Poppins, con qualche ammaccatura e i ganci arrugginiti: cinque o sei barrette al cioccolato, in confezioni singole. C’erano anche un grosso ravanello e una patata, destinati a gestire i casi più pietosi.
Harper guardò all’interno, mentre Raymond si premeva da solo l’impacco sullo zigomo.
«Mmm... Dev’essermi rimasto un Twix nella scatola dei dolci. Ne avrei proprio bisogno!»
«E io?» chiese Raymond, con voce nasale.
«Per te c’è qualcosa di meglio. Ho un grosso ravanello gustoso e, se fai il bravo sul serio, te lo lascio mangiare. Io prendo il Twix.» Harper gli mostrò l’interno del portapranzo.
«Bleah. Non lo voglio il ravanello.»
«Che ne dici allora di una bella patata dolce? È un fantastico bottino.»
«Bleah. Perché non ci giochiamo il Twix a braccio di ferro? Il mio papà lo batto.»
Lei fischiettò tre battute di My Favorite Things, come se ci stesse riflettendo. Le capitava spesso di fischiare motivi dai musical degli anni Sessanta e in segreto fantasticava di essere accompagnata da servizievoli ghiandaie azzurre e sfacciati pettirossi. «Non so se ti conviene sfidarmi a braccio di ferro, Raymond Bly. Sono in ottima forma.»
Finse di dover guardare fuori dalla finestra per pensarci su e fu allora che scorse un uomo sul retro.
Da dove si trovava, Harper aveva un’ottima visuale sul cortile, qualche decina di metri quadri di asfalto segnati qua e là dal tracciato per il gioco della campana. Più avanti c’era mezzo ettaro scarso di terriccio con le attrezzature complete di un parco giochi: altalene, scivoli, una parete per arrampicarsi e una fila di tubi di acciaio che i bambini potevano suonare come gong (e che lei chiamava lo Xilofono dei Dannati).
Era in corso la prima ora e il cortile era deserto. L’unico momento della giornata in cui non ci fosse un branco di ragazzini che strillavano, urlavano, ridevano e si scontravano fuori dalle finestre dell’infermeria. C’era solo quell’uomo, con indosso un’informe giacca verde militare e un paio di larghi pantaloni da lavoro marrone; il volto era in ombra, sotto un berretto da baseball sporco. Stava girando intorno al retro dell’edificio, camminando a testa bassa, malfermo sulle gambe. All’inizio Harper pensò che fosse ubriaco, dato che non riusciva a procedere in linea retta. Poi notò il fumo che gli usciva dalla giacca: volute bianche e sottili che si levavano dalle maniche e dal colletto, infilandosi tra i lunghi capelli castani.
Barcollante, l’individuo lasciò la zona asfaltata e proseguì sul terriccio. Fece altri tre passi e appoggiò la mano destra su un piolo di legno della scaletta di una palestrina. Anche a quella distanza si notava qualcosa sul dorso, una striscia scura – come un tatuaggio – punteggiata d’oro. I puntini brillavano, come granelli di polvere in un raggio di sole abbagliante.
Harper aveva visto le immagini al telegiornale, ciò nonostante in quei primi momenti non riuscì a capire cosa stesse accadendo. Le merendine caddero dal portapranzo di Mary Poppins e finirono sul pavimento. Lei non le sentì, non si rendeva conto che stava tenendo il contenitore inclinato, seminando ovunque dolcetti e cioccolatini. Raymond guardò la patata che atterrava con un tonfo sordo e rotolava sotto un mobile.
L’uomo che camminava come fosse ubriaco si piegò in avanti. Poi inarcò la schiena, scosso da una convulsione, gettando la testa all’indietro. Le fiamme gli lambirono la camicia. Per un attimo Harper ne scorse il volto scarno e agonizzante, poi la testa diventò una torcia. L’uomo si portò la mano sinistra al petto, senza lasciare il piolo con la destra che, in fiamme, stava carbonizzando il legno. La testa si piegò ancora di più all’indietro e la bocca si aprì per urlare, ma riuscì solo a eruttare fumo nero.
Raymond vide l’espressione sul volto di Harper e fece per guardare a sua volta fuori dalla finestra. Lei lasciò cadere il portapranzo sul pavimento e corse da lui, premendogli l’impacco sul viso con una mano, mentre gli metteva l’altra sulla nuca, girandogli la testa.
«No, caro», disse, sorpresa della calma che sentiva nella propria voce.
«Cos’era?» chiese il bambino.
Lei gli lasciò la nuca e allungò la mano fino alla corda della tapparella. Fuori, l’uomo in fiamme, in ginocchio, chinò il capo come se pregasse rivolto alla Mecca. Era avviluppato dal fuoco, un mucchio di stracci che rovesciava fumo oleoso nel freddo e limpido pomeriggio di aprile.
La tapparella calò con un fragore metallico, oscurando la scena, eccezion fatta per un bagliore frenetico di luce dorata che lampeggiava ai bordi.







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