Nuova rubrica che ho deciso di fare dopo averla vista sul blog di Alessia del blog Il profumo dei libri.
REGOLE:
-
Prendete un libro qualsiasi contenuto nella vostra libreria
-
Copiate le prime righe del libro (possono essere 10, 15, 20 righe)
-
Scrivete titolo e autore per chi fosse interessato
- Aspettate i commenti
Per
la prima “puntata” di questa rubrica del blog voglio farvi
conoscere il prologo del libro Fireman – L'uomo di fuoco di Joe
Hill, figlio di Stephen King. Mi piace molto il suo stile, quasi
quanto quello del più celeberrimo padre!
Prologo
Accensione
COME
tutti, Harper Grayson aveva visto un sacco di gente andare a fuoco in
tv, ma la prima volta che vide una persona bruciare dal vero fu nel
cortile dietro la scuola.
A
Boston e in altre parti del Massachusetts le scuole erano chiuse, ma
nel New Hampshire venivano ancora tenute aperte. Lì c’erano stati
alcuni casi, ma isolati. Harper aveva sentito che mezza dozzina di
pazienti erano ricoverati in un’ala sicura dell’ospedale di
Concord, affidati alle cure di una squadra di medici equipaggiati con
tute protettive integrali e infermiere armate di estintore.
Harper
stava tenendo premuto un impacco freddo sulla guancia di Raymond Bly,
un bambino di prima elementare colpito alla faccia da una racchetta
da badminton. Succedeva sempre una o due volte ogni primavera, quando
l’insegnante di ginnastica, Keillor, tirava fuori le racchette. E,
puntuale, tutte le volte diceva ai ragazzi di non farci caso, anche
se li vedeva con i denti in mano. Le sarebbe piaciuto che un giorno o
l’altro Keillor si prendesse una racchettata nelle palle, giusto
per la soddisfazione di dire a lui
di
non farci caso.
Raymond
non piangeva quando era arrivato, ma poi si era guardato allo
specchio e per un attimo aveva perso la sua compostezza: gli era
apparsa una fossetta sul mento e l’agitazione gli aveva fatto
tremare i muscoli del viso. Aveva un occhio nero e viola, quasi
completamente chiuso. Il riflesso allo specchio lo aveva spaventato
più del dolore.
Per
distrarlo, Harper fece ricorso alle merendine di emergenza. Le
conservava in un vecchio portapranzo di Mary Poppins, con qualche
ammaccatura e i ganci arrugginiti: cinque o sei barrette al
cioccolato, in confezioni singole. C’erano anche un grosso
ravanello e una patata, destinati a gestire i casi più pietosi.
Harper
guardò all’interno, mentre Raymond si premeva da solo l’impacco
sullo zigomo.
«Mmm...
Dev’essermi rimasto un Twix nella scatola dei dolci. Ne avrei
proprio bisogno!»
«E
io?» chiese Raymond, con voce nasale.
«Per
te c’è qualcosa di meglio. Ho un grosso ravanello gustoso e, se
fai il bravo sul serio, te lo lascio mangiare. Io prendo il Twix.»
Harper gli mostrò l’interno del portapranzo.
«Bleah.
Non lo voglio il ravanello.»
«Che
ne dici allora di una bella patata dolce? È un fantastico bottino.»
«Bleah.
Perché non ci giochiamo il Twix a braccio di ferro? Il mio papà lo
batto.»
Lei
fischiettò tre battute di My
Favorite Things,
come se ci stesse riflettendo. Le capitava spesso di fischiare motivi
dai musical degli anni Sessanta e in segreto fantasticava di essere
accompagnata da servizievoli ghiandaie azzurre e sfacciati
pettirossi. «Non so se ti conviene sfidarmi a braccio di ferro,
Raymond Bly. Sono in ottima forma.»
Finse
di dover guardare fuori dalla finestra per pensarci su e fu allora
che scorse un uomo sul retro.
Da
dove si trovava, Harper aveva un’ottima visuale sul cortile,
qualche decina di metri quadri di asfalto segnati qua e là dal
tracciato per il gioco della campana. Più avanti c’era mezzo
ettaro scarso di terriccio con le attrezzature complete di un parco
giochi: altalene, scivoli, una parete per arrampicarsi e una fila di
tubi di acciaio che i bambini potevano suonare come gong (e che lei
chiamava lo Xilofono dei Dannati).
Era
in corso la prima ora e il cortile era deserto. L’unico momento
della giornata in cui non ci fosse un branco di ragazzini che
strillavano, urlavano, ridevano e si scontravano fuori dalle finestre
dell’infermeria. C’era solo quell’uomo, con indosso un’informe
giacca verde militare e un paio di larghi pantaloni da lavoro
marrone; il volto era in ombra, sotto un berretto da baseball sporco.
Stava girando intorno al retro dell’edificio, camminando a testa
bassa, malfermo sulle gambe. All’inizio Harper pensò che fosse
ubriaco, dato che non riusciva a procedere in linea retta. Poi notò
il fumo che gli usciva dalla giacca: volute bianche e sottili che si
levavano dalle maniche e dal colletto, infilandosi tra i lunghi
capelli castani.
Barcollante,
l’individuo lasciò la zona asfaltata e proseguì sul terriccio.
Fece altri tre passi e appoggiò la mano destra su un piolo di legno
della scaletta di una palestrina. Anche a quella distanza si notava
qualcosa sul dorso, una striscia scura – come un tatuaggio –
punteggiata d’oro. I puntini brillavano, come granelli di polvere
in un raggio di sole abbagliante.
Harper
aveva visto le immagini al telegiornale, ciò nonostante in quei
primi momenti non riuscì a capire cosa stesse accadendo. Le
merendine caddero dal portapranzo di Mary Poppins e finirono sul
pavimento. Lei non le sentì, non si rendeva conto che stava tenendo
il contenitore inclinato, seminando ovunque dolcetti e cioccolatini.
Raymond guardò la patata che atterrava con un tonfo sordo e rotolava
sotto un mobile.
L’uomo
che camminava come fosse ubriaco si piegò in avanti. Poi inarcò la
schiena, scosso da una convulsione, gettando la testa all’indietro.
Le fiamme gli lambirono la camicia. Per un attimo Harper ne scorse il
volto scarno e agonizzante, poi la testa diventò una torcia. L’uomo
si portò la mano sinistra al petto, senza lasciare il piolo con la
destra che, in fiamme, stava carbonizzando il legno. La testa si
piegò ancora di più all’indietro e la bocca si aprì per urlare,
ma riuscì solo a eruttare fumo nero.
Raymond
vide l’espressione sul volto di Harper e fece per guardare a sua
volta fuori dalla finestra. Lei lasciò cadere il portapranzo sul
pavimento e corse da lui, premendogli l’impacco sul viso con una
mano, mentre gli metteva l’altra sulla nuca, girandogli la testa.
«No,
caro», disse, sorpresa della calma che sentiva nella propria voce.
«Cos’era?»
chiese il bambino.
Lei
gli lasciò la nuca e allungò la mano fino alla corda della
tapparella. Fuori, l’uomo in fiamme, in ginocchio, chinò il capo
come se pregasse rivolto alla Mecca. Era avviluppato dal fuoco, un
mucchio di stracci che rovesciava fumo oleoso nel freddo e limpido
pomeriggio di aprile.
La
tapparella calò con un fragore metallico, oscurando la scena,
eccezion fatta per un bagliore frenetico di luce dorata che
lampeggiava ai bordi.
wow, mi ispira un sacco!
RispondiEliminaE' bravo. Degno figlio di suo padre!
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